Quando Sasha era Zar...

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|=Valentino=|
00sabato 27 febbraio 2010 15:56
Auguri Buon Compleanno...



Quando Sasha era Zar
Compie 40 anni Danilovic, mito del basket [SM=x1406333] [SM=x1387384]


C’era Vladimir Dokic, narrano i libri di storia, quando Sasha Danilovic varcò per la prima volta, a quattordici anni, la porta della palestra del Bosna Sarajevo. Era il 1984 e nessuno immaginava che il corso degli eventi avrebbe poi preso la piega che sappiamo.
BOSNIA - Quel giorno, in quella che era Bosnia solo per chi ci viveva e non per gli atlanti, la pallacanestro abbracciò uno dei suoi protagonisti più fulgidi, noti e discussi. Oggi Danilovic compirà 40 anni nella sua Belgrado, dove da dieci anni è tornato a vivere e lavorare, occupandosi a tempo pieno della gestione del Partizan.

GIOVANI - Fu la società bianconera a strapparlo alla Bosnia, decretandone pure la squalifica per due anni, a portarlo via dalle lunghe passeggiate per raggiungere la scuola e dalla Skenderjia dove conobbe il suo primo idolo Mirza Delibasic. E fu, ironia della sorte, il torneo giovanile dell’Unione — in cui croati, serbi, sloveni, macedoni e bosniaci se le davano divisi nelle rappresentative regionali — a servirlo su un piatto d’argento davanti agli occhi di Dule Vujosevic, allora assistente al Partizan. Oggi Danilovic è il suo presidente, guida una società modello che alleva giovani come fecero con lui oltre vent’anni fa e che resta al vertice in Europa sfornando un campioncino all’anno.

VUJOSEVIC - Ma nessuno più ha la pasta dello Zar, mescola unica con la quale Dule s’è divertito a creare un capolavoro. «La cosa che notai subito — racconta — era la personalità di quel ragazzino magro e con i capelli corvini. Ci parlai un attimo e mi dissi "vivere con questo qui sarà difficile". Ha un carattere duro, spigoloso, determinato. Ora è cambiato, perché le cose della vita ti trasformano, ma non ha modificato l’essenza. È sempre Danilovic, anche se è un papà e un presidente». Era facile, in quella Jugoslavia, essere un duro.
CARATTERE - Era certamente più semplice che essere un simpaticone o un caciarone. Ma lui piacione non l’è stato nemmeno dopo, quando a Bologna e poi nella Nba aveva la fama, i soldi, i riflettori, la bella vita. Anzi, da quello star-system americano è fuggito subito (non prima d’aver dimostrato di poter fare il campione anche là). Al debutto in America ha preso a cazzotti un suo avversario, non c’era un solo momento in cui potesse allentare la morsa che lo spingeva al limite della competizione. Mai vanitoso, modaiolo, frivolo, aveva una sola espressione per tutto, sempre adombrata dal giaccone di pelle nera. Si concedeva il lusso di una bella macchina — la prima una Bmw 850, ovviamente nera, che brillava fra le transenne di quello che allora era il posteggio di piazza Azzarita — e, solo dopo essere ritornato come il Messia firmando un contratto da 4 miliardi nel ’98, di poterla parcheggiare davanti alla porticina della palestra Arcoveggio.

MITO - In quella sua seconda edizione, più tarchiata e muscolare ma diabolicamente efficace, c’era chi gli portava la borsa e alla Virtus lo vedevano entrare con l’immancabile beauty-case morbido nella mano destra. Stop, fine delle sciccherie. D’altronde, è su quell’aura oscura, su quel concedersi poco, su quell’alone di mistero, su quel P.D. stampato sul campanello in galleria Cavour che si è alimentato il mito di Danilovic. Certo, se non avesse fatto tutto quel che ha fatto, sarebbe passato per il solito giocatore borioso, montato, antipatico. «Era così fin da ragazzino — ammette Dule — perché lui voleva primeggiare, vincere, diventare il migliore qualsiasi cosa facesse. Era disposto a tutto, a qualsiasi tipo di sacrificio e sopportazione. Passava le giornate in palestra, bisognava buttarlo fuori perché lui viveva solo per imparare, allenarsi, crescere, diventare un campione. E per questo quando ha capito di non esserlo più ha smesso, a trent’anni».

CARRIERA - Un’altra delle sue felici intuizioni e zampate. Il basket stava cambiando, Bologna stava cambiando, lui lo capì. O forse, ancora una volta fu baciato sulla fronte da un dolce destino. «Non avrebbe mai continuato per vedersi in declino, o non poter più competere al massimo livello. Non avreste mai visto un Danilovic "a fine carriera". E poi Sasha è uno che capisce le cose prima degli altri: quando iniziai ad allenarlo gli spiegavo come volevo che eseguisse i fondamentali, i passaggi, il tiro. Lui provava una volta ed era già perfetto. Doveva solo ripetere il gesto, lavorare per diventare veloce, ma sapeva già fare tutto. Ed era disposto anche a spaccarsi in due pur di vincere. Nel ’92 scelse Bologna e la Virtus rinunciando a contratti migliori perché era sicuro che quel club lo avrebbe portato al successo».

DURO - Chissà che gioia averlo come compagno: uno che non parla mai, non ride mai, non molla mai, non sai come potrebbe rispondere ad una tua semplice domanda. «Ma anche uno che ti faceva vincere», scherza (mica tanto) Vujosevic. «E poi i primi due anni non poteva stare sulle scatole a nessuno, perché il suo passaggio al Partizan fu giudicato irregolare dalla federazione che lo squalificò. Si allenava, dunque, ma non poteva togliere il posto a nessuno. Ah, quei due anni lì sì che stava simpatico a tutti. Ma siccome era nato per giocare, vincere ed essere un leader, ci mise poco a recuperare il tempo perso. Nessuno era disposto come Sasha a soffrire per ottenere ciò che voleva. E dopo, tutti erano pronti a seguirlo». Oggi, a quarant’anni, è sempre sposato con Svetlana, è padre di Olga, Sonja e Vuk, resta un mito per due generazioni. «Qui in Serbia non tutti i giovanissimi sanno di cosa stiamo parlando. Ma quando uno come Sasha tocca le stelle, poi resta lì».
william73
00sabato 27 febbraio 2010 20:16
Auguriiiiiiiii!!!!!!!!!!!!
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@vigor
00lunedì 1 marzo 2010 15:00
il più grande
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Wadi
00lunedì 1 marzo 2010 15:46

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