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Franceschino Morara
Castelfranco nell'Emilia li, 09 dicembre 2008
E' dai tempi di Bla sulla sua Turboberta che seguo assiduamente le vicende autobiografiche di Cristiano Cavina, Viale Neri, Casola Valsenio (RA).
Per uno scrittore mio coetaneo o quasi, la sua capacità di rendere "mitiche" le proprie/mie esperienze di infanzia ed adolescenza, cosa che altri suoi/miei coetanei più affermati prima di lui non sono riusciti o solo parzialmente sono riusciti a fare (penso a Brizzi e Culicchia ad esempio), è sempre la causa che mi induce a fare click sull'iconcina "metti nel carrello" non appena vedevo la copertina di un suo libro in giro per la rete. Il tutto unito ad una prosa fatta di frasi brevi e schiette, "romagnole" oserei dire, e di capitoli che spesso terminano con dei giudizi che a volte ti vien da dire :
"Ma allora perché ha scritto dieci pagine, per riassumere tutto in una frase ?"
Poi diciamolo, anzichenò, questi scrittori autobiografici, o semiautobiografici, e qua scomodo dei "carichi da undici", partendo da Hemingway e dalla "lost generation", passando per Kerouac e la "beat generation", finendo a Bukowski, li ho sempre adorati. Proprio perché (e qua penso veramente a Buk), "rendono straordinarie le loro vite", o quelle dei loro alterego, vite che oggi le chiamerebbero "borderline", io che sono più grezzo le chiamo "da sfigati".
Il solo pensare a Casola Valsenio, ad una Romagna senza mare, stuzzicava la mia curiosità di povero sempliciotto di campagna con le "squole basse".
Questa volta Cavina toppa, ovvero in alternativa parzialmente toppa, nonostante dimostri effettivamente di essere "uno scrittore vero", giudizio che campeggia sul sito inernet della casa editrice.
Perché il romanzo è su tre livelli, o su tre diverse scene, c'é un solo denominatore comune, la morte, ovvero in alternativa il rapporto che ha l'autore con le sue esperienze di morte.
La prima, quella del ritrovamento e della chiusura dei conti con il padre naturale, quel padre la cui mancanza aleggiava sempre nei romanzi precedenti.
La seconda, quella sua personale, del fallimento della sua relazione, della nascita del figlio dopo che la sua ex, Anna ha avuto una gravidanza a dir poco travagliata, e della scoperta della sua grave malattia.
La terza, l'asilo, Don Elvis, Suor Luca Maria, i frutti dimenticati, la Vespa di nonno Gianì, i grembiulini a quadretti, la colonia estiva, il momento del pisolino pomeridiano dalle orsoline. La "solita" Casola Valsenio o Purocielo, chiamatela come volete.
Ora, non lasciatevi ingannare, dalla prima e dalla seconda, lasciatevi scappare la "lacrimuccia" se volete, perché probabilmente alcune/molte vostre sensibilità verranno toccate, come sono state toccate alcune delle mie.
Ma sono le sensibilità e le esperienze di un quarantenne, che per quanto si sforzino di essere oneste sono sempre condizionate dal bagaglio di esperienze fatte in precedenza. Lì Cavina oltre a non essere l'unico a fallire il proprio rapporto con la madre di suo figlio, oltre a non essere l'unico a sopravvivere al proprio padre (dovrebbe essere così normalmente), oltre a non essere l'unico a vivere l'esperienza di una gravidanza complicata e rischiosa (e in questi casi, noi uomini generalmente ci facciamo una gran figura del cazzo nei confronti delle nostre compagne/mogli), fa una grossa cappella nel libro.
Vuole pagare i suoi "debiti" nei confronti della compagna e del figlio, con l'infinito "credito" (anche narrativo se uno ha letto tutti i suoi libri) che ha nei confronti del padre. E scomoda pure l' "Altissimo" come lo chiama lui.
No .... brisa Cristiano.
E' un libro sulla morte questo, bastava Franceschino Morara e la campana di Minghì per capirlo. Infatti Cristiano Cavina parzialmente si pente, riducendo a poche righe l' "avviarsi" di Nonna Cristina e Nonno Gianì, che per chi ha letto solo quest'ultima opera passi anche ma chi ha letto tutto è una grossa "cappella".
Leggete anche voi e capirete.